Gli exchange di criptovalute centralizzati sono un elemento essenziale dell’ecosistema crypto: tali piattaforme consentono agli investitori di acquistare, vendere, depositare e prelevare una vasta gamma di criptovalute in maniera semplice e veloce.
Su un exchange centralizzato non sono gli utenti a controllare le chiavi private del loro crypto-wallet, bensì la piattaforma stessa. Da un lato questo è un vantaggio, specialmente per i neofiti: smarrire la chiave privata significa infatti perdere l’accesso al wallet. A volte, è meglio lasciare che questi dati sensibili vengano gestiti da un’azienda attendibile.
Dall’altra può essere uno svantaggio: di fatto, chi possiede la chiave privata di un wallet possiede anche tutti gli asset al suo interno. Un exchange poco affidabile potrebbe utilizzare i fondi depositati dagli utenti per effettuare investimenti, offrire prestiti e compiere altre operazioni potenzialmente rischiose. E se l’azienda in questione dovesse dichiarare bancarotta, gli investitori perderebbero tutti i propri asset: è proprio ciò che accadde lo scorso anno ai clienti dell’exchange FTX.
Il caso FTX
Fondato nel maggio del 2019 da Sam Bankman-Fried, l’exchange FTX crebbe rapidamente: tramite l’acquisizione di società concorrenti e un’aggressiva campagna di marketing, FTX divenne in pochissimo tempo uno dei più importanti exchange del settore crypto. A gennaio 2022, la compagnia vantava una valutazione di ben 32 miliardi di dollari.
Tutto questo ebbe improvvisamente fine nel novembre del 2022, quando si scoprì che i fondi dei clienti erano stati trasferiti su conti controllati da Alameda Research – società di trading di criptovalute con sede a Hong Kong, anch’essa appartenente a Sam Bankman-Fried – invece che da FTX.
FTX e le sue consociate non pubblicavano regolarmente bilanci che mostrassero attività e passività, né queste aziende erano mai state sottoposte a revisione contabile da parte di società di terze parti. In altre parole, non vi erano prove che FTX avesse realmente i fondi che sosteneva di possedere.
Quando i bilanci di FTX trapelarono in rete, mostrando 9 miliardi di dollari di passività e soltanto 900 milioni di dollari di attività, i clienti in preda al panico iniziarono a prelevare in massa i propri fondi dalla piattaforma. Ma data la mancanza di liquidità e le accuse penali mosse contro Bankman-Fried e il resto del gruppo dirigente, l’azienda fu costretta a dichiarare bancarotta.
Il fallimento di FTX sconvolse l’intero settore delle criptovalute: fino a quel momento, la piattaforma era considerata una delle più affidabili e sicure al mondo. La crypto-community iniziò a chiedersi se ci si poteva ancora fidare degli exchange centralizzati, esigendo maggiore trasparenza da tali aziende.
Fu così che, per dimostrare la propria solvibilità e fugare i timori degli utenti, molti exchange di criptovalute iniziarono a pubblicare le cosiddette “Proof of Reserves.”
Cosa sono le Proof of Reserves?
Una “Proof of Reserves” è un processo di verifica, con il quale un exchange di criptovalute può dimostrare di possedere abbastanza fondi per coprire i prelievi degli utenti.
Tale processo viene tipicamente eseguito da un revisore di terze parti, il quale si accerta che l’azienda possieda realmente i crypto-asset che sostiene di controllare. Verifica inoltre che il saldo totale dei clienti sia pari o inferiore alle attività di riserva dell’azienda, che potrà pertanto coprire tutti i potenziali prelievi.
Vi è infine un ultimo passaggio: la creazione di uno strumento di verifica che permetta a ciascun cliente di controllare che i propri asset siano stati effettivamente inclusi nella Proof of Reserves.
Solitamente i revisori di terze parti impiegano un “Merkle Tree,” uno strumento informatico che consente di confermare l’autenticità di un data-set conoscendo soltanto una piccola parte di esso. In altre parole, tramite un Merkle Tree gli utenti possono verificare, in maniera autonoma e indipendente, che l’exchange non abbia manomesso i dati.
Una Proof of Reserves dettagliata può essere vantaggiosa sia per le aziende che per i clienti. Da un lato dimostra che l’exchange si assume le proprie responsabilità di custode e non utilizza gli asset degli investitori per i propri scopi, ad esempio investendo in aziende o prestando tali fondi a terzi. Dall’altro garantisce ai clienti che la piattaforma da loro utilizzata non rischia problemi di liquidità: i loro asset saranno disponibili per il prelievo in qualsiasi momento, indipendentemente dalle condizioni del mercato.
Da un anno a questa parte, i principali exchange di criptovalute pubblicano regolarmente le proprie Proof of Reserves. Fra questi anche Bitget, il cui ultimo report mostra un coefficiente di riserva pari al 223%: una cifra oltre due volte superiore rispetto allo standard del settore di circa il 100%.
Inoltre, di recente la piattaforma ha introdotto un ulteriore livello di resilienza contro incidenti di forza maggiore, come attacchi hacker o situazioni di mercato particolarmente negative: un Fondo di Protezione da oltre 300 milioni di dollari, che include asset ad alta liquidità come BTC, USDT e USDC. Il Fondo di Protezione è interamente autofinanziato: questa caratteristica conferisce al fondo una maggiore autonomia ed efficienza, consentendo una distribuzione più rapida delle risorse.
Il Fondo di Protezione di Bitget si è mantenuto sopra i 300 milioni di dollari per tutto il mese di luglio.
Bitget è stata fondata nel 2018 a Singapore, e vanta oggi un’esperienza globale: con oltre 8 milioni di utenti registrati in tutto il mondo, l’azienda offre supporto ai propri utenti 24 ore su 24, 7 giorni su 7. I suoi servizi sono disponibili in ben 12 lingue, fra cui anche l’italiano.
Trasparenza e fiducia degli utenti sono elementi fondamentali per ogni moderna piattaforma di trading. Le Proof-of-Reserves offrono agli investitori la garanzia che i loro fondi siano conservati in modo sicuro e protetto, e rappresentano un’innovazione importante per la crescita e lo sviluppo del settore crypto.
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